Napoli: La Madonna di Montevergine
Manco dal Santuario di Montevergine dal 1994 e non ho potuto ammirare il capolavoro di Montano d’Arezzo restituito allo splendore dei suoi colori originari. Mi recai dopo aver trascorso alcuni giorni in terapia intensiva nella limitrofa clinica Malzoni, in una sorta se non di ringraziamento, di pellegrinaggio spirituale. Rimasi colpito che la quasi totalità dei monaci erano di pelle nera e mi chiesi: “Quando un Papa africano?”. Tra le storie millenarie d'Italia, non,va dimenticata quella dell'Abbazia di Montevergine: consacrata nel 1126, era stata individuata qualche anno prima da san Guglielmo da Vercelli al culmine di un luogo solitario, fatto per mistici di ferro: la cima del Monte Partenio, nel cuore dell' Irpinia, che domina Avellino e le sue valli da una delle più belle vette d'Italia.
La Madonna in Maestà con il Bambino Gesù” di Montano d'Arezzo – documentata sin dal 1310 – simbolo per secoli di una devozione tutt'ora ininterrotta, è stata restaurata. Dopo mezzo secolo in cui, posta a venti metri d'altezza nella nuova chiesa novecentesca dell'Abbazia - non certo un capolavoro dell'architettura del Novecento - la grande tavola di Montano (quattro metri e sessanta centimetri per due e trentadue!) tornerà nella Cappella Imperiale della magnifica Chiesa antica dell'Abbazia. Come a volte accade, se la devozione per la “Maestà” di Montano d'Arezzo non ha conosciuto pause, è la percezione del suo significato nella storia dell'arte d'Italia ancor oggi a latitare. Ma chi era Montano d' Arezzo? Formatosi nel cantiere della Basilica superiore di Assisi intorno 1280, Montano dialoga con il Cimabue della Crocifissione nel transetto e con lo stesso Giotto ed è da quest'ultimo e dal romano Pietro Cavallini che egli matura i fondamenti del suo stile. Giunto a Napoli alla fine del Duecento, Montano sarà trai principali artisti della Corte di Carlo II d'Angiò, lavorando al Duomo e a San Lorenzo Maggiore. A Montevergine andrà per conto di Filippo d'Angiò, Principe di Taranto, che ricompenserà l'artista donandogli dei terreni. Da vicino la “Maestà” di Montano emana un impatto straordinario. Riportarla nella sua sede originaria, a pochi metri dagli occhi dei visitatori, è un atto storicamente dovuto, che li Protegge ripristina un rapporto corretto tra l'opera e il suo pubblico e ne ripropone appieno il significato, nel senso più alto del termine. All’opera, tanto venerata dai fedeli, non viene riconosciuta l’importanza che merita nella storia dell’arte. Il pellegrinaggio dei femminielli. Il 2 febbraio di ogni anno, schiere di femminielli salgono al Santuario per la festa della Candelora sulle orme della dea Cibele. I precedenti storici sono costituiti dai Galli, gli eunuchi sacri adepti della dea Syria. Essi vestivano abiti femminili per non turbare le donne e la sede del culto era Hierapolis (Alepppo). Il loro patrono è San Sebastiano martir del III secolo divenuto un’icon gay da quando d’Annunzio nel suo Martyre de Saint Sebastien lo trasforma nel favorito dell’Imperatore. Il popolo gay incontra da sempre la sua Signora, la Mamma Schiavona "che tutto concede e tutto perdona". L'intera costellazione raccolta sotto la sigla LGBT {Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender) diventa di fatto la nuova protagonista di un antichissimo pellegrinaggio in onore della Vergine. Secondo la leggenda fu proprio lei, nel 1256, a salvare due giovani omosessuali che, in seguito allo scandalo provocato dalla loro relazione, erano stati legati a un albero e abbandonati a morire di stenti sulla montagna. Il miracolo fu visto come un segno di tolleranza soprannaturale e da allora i femminielli divennero devotissimi della Madonna di Montevergine. Ma in realtà, questa balza vertiginosa, sospesa tra nidi d'aquile e tane di lupi, è da sempre meta prediletta di una umanità en travesti. Infatti, molti secoli prima di Cristo a salire quassù erano i Coribanti, i preti eunuch di Cibele, la grande madre nera, simbolo femminile della natura. Il suo tempio sorgeva proprio dove adesso c'è il santuario mariano. I sacerdoti si eviravano ritualmente per offrire il loro sesso in dono alla dea e rinascere con una nuova identità. Si vestivano da donne con sete gialle, arancione, rosa colori sgargianti. Si truccavano pesantemente gli occhi e attraversavano in gruppo le città suscitando un misto di curiosità morbosa e di scandalo, anche per il loro erotismo esibito e la sfrontatezza delle loro provocazioni sessuali. Insomma queste processioni orgiastiche a base di canti, balli e suoni di tamburo erano in qualche modo i Gay Pride dell'antichità. E proprio come allora, anche ora l'esagerazione è di rito. Travestimenti, canzoni, suoni, crepitio di nacchere e battito di tammorre accompagnano l'ingresso in chiesa. Poi il silenzio cala improvviso e si leva alta un'invocazione salmodiante, tra la litania del muezin e il grido dei venditori, che chiama a raccolta le figlie della Mamma schiavona, facendo risuonare nel presente un'eco mediterranea lontana. A intonarl è il noto artista folk Marcello Colasurdo, ex operaio dell'Alenia di Pomigliano d'Arco, a lungo frontman del Gruppo musicale E' Zezi cantore ufficiale della galassia LGBT. "Non c'è uomo che non sia femmina e non c'è femmina che non sia uomo", ripete come un mantra. Mentre all'esterno il rito lascia affiorare tutto il suo fondo pagano e le figure sensuali della tammurriata ricordano in maniera impressionante le danze degli affreschi pompeiani. Veli volteggianti, fianchi roteanti, gesti ammiccanti. Pier Paolo Pasolini, stregato dal fascino arcaico di queste nenie rituali, nel 1960 volle registrarle personalmente dalla viva voce delle devote per usarle come colonna sonora del suo Decameron. E ancor prima, Zavattini e De Sica parteciparono al pellegrinaggio dei femminielli quando erano in cerca di ispirazioni per L'oro di Napoli. Il carattere pagano del culto ha spess provocato scontri con l'autorità ecclesiastica. In due occasioni, nel 2002 e nel 2010, l'abate del santuario ha scacciato i gay dalla chiesa scagliando su di loro un vero e proprio anatema. Che, ha suscitato lo sdegno del mondo progressista e non solo. Ma i coribanti di oggi non si lasciano intimidire da diktat così poco evangelici. Loro vogliono bene alla Madonna e la Madonna vuoi bene a loro, il resto non conta. E si mostrano ogni anno più determinati nel trasformare il pellegrinaggio in occasione politica, in piattaforma democratica di lotta contro l'omofobia che ancora affligge il nostro paese. Tra i più agguerriti Porpora Marcasciano (presidente del MIT - movimento identità trasgender - di Bologna), e Vladimir Luxuria. Che ogni anno sale a Montevergine per onorare la Madonna nera. Perché, tiene a dire, "da secoli le persone diverse si sono riconosciute in questa Madonna diversa. Una madre che guarda solo nel nostro cuore e non si interessa all'involucro che lo contiene". Così la rivendicazione dei nuovi diritti fa suo un simbolo ancestrale. Avvicinando i due lembi estremi della storia. Un passato millenario e un futuro necessario. E al di là di tutti i distinguo politically correct e delle nuove sigle identitarie, quel giorno si diventa tutti femminielli. Anime femmine in corpi mutanti. Diversamente uguali nel nome della Madre. Il femminiello dal popolino è volgarmente chiamato “ricchione” dal popolino, che ignora di adoperare un termine assai antico e di origine spagnola. Furono infatti i nostri dominatori per tanti secoli ad introdurre, all'inizio del Cinquecento, nel dialetto di Napoli, la parola orejones, con la quale si indicavano gli omosessuali, eredi della dinastia incaica, che si facevano forare ed allungare i lobi delle orecchie come segno distintivo. Naturalmente personaggi dal sesso mascherato erano già presenti presso di noi da migliaia di anni e dobbiamo tornare molto indietro nel tempo, se vogliamo comprendere fenomeni che ancor oggi resistono nella nostra cultura, pur con le dovute trasformazioni. Un esempio paradigmatico di quanto profonde siano le radici di antiche pratiche appartenenti al mondo dei travestiti, esistenti ancora oggi, anche se difficilmente visibili, avendo nel tempo acquisito il carattere della massima riservatezza, è costituito dalla cosiddetta “Figliata d''e femminielli”. Essa non è altro che un rituale derivante dall'antico rito della fecondità, praticato per secoli nella nostra città. La figliata si svolge segretamente alle pendici del Vesuvio, a Torre del Greco, ed è stata descritta accuratamente con accenti vivaci da Malaparte nel suo libro La pelle e dalla regista Cavani nell'omonimo film. Questa originale iniziazione ad una femminilità particolare prevedeva un utilizzo di segrete conoscenze alchemiche, oggi perdute ed avveniva durante periodici festeggiamenti per l'avvenuta nascita del "maschiofemmina", dagli iniziati chiamata Rebis, res + bis, cosa doppia. Il rituale, descritto nella Napoli esoterica di Buonoconto, richiedeva la presenza di un ermafrodito, l'unica creatura che contenesse i due elementi in cui è suddivisa tutta la natura. I Greci ritenevano divino l'ermafrodito, perché figlio della bellezza (Afrodite) e della forza (Ermes). Naturalmente nel tempo la purezza ideale dell'ermafrodito alchemico s è in parte smarrita, sostituita dalla più materiale ambiguità del femminiello, ma l'antica memoria del rito non è andata del tutto smarrita conserva immutata ancora oggi la forte carica simbolica, che suggestiona a tal punto alcuni soggetti, da fargli provare le stesse emozioni ed i lancinanti dolori del parto. Sdraiato sul lettino ed assistito dalle parenti, il femminiello vive le ore del travaglio ed il momento del parto. Alcuni soggetti si immedesimano a tal punto nel rituale, da presentare, per effetto di una profonda quanto inconscia memoria ancestrale, tutti i segni della sofferenza con un'evidenza sconcertante, dall'accelerazione del battito cardiaco alla sudorazione, dal pallore anemico alle contrazioni dei muscoli addominali. Durante le doglie le parenti accompagnano il travaglio con ritmiche litanie, la cui origine si perde nella notte dei tempi, dal trivolo vattuto, letteralmente dolore picchiato, al classico taluorno, un triste accompagnamento vocale delle veglie mortuarie, caratterizzato da una lamentazione ritmica, scandita da colpi portati alle guance dalle due mani contemporaneamente, mentre la testa oscilla ampiamente avanti e indietro. Nell'acme della figliata, il femminiello simbolicamente espelle dalle cosce un bambolotto di pezza (di legno a forma di fallo, secondo Malaparte, che asserisce di aver assistito ad una figliata) accolto con grande gioia dalle comari, che accolgono trionfante il neofita nella loro ambigua comunità, offrendo in abbondanza agli astanti vermouth e babà. A questi riti antichi e dimenticati si ricollega la credenza che il femminiello porti fortuna, sia portatore di una carica di magico, stando al limite del diverso, in condizione simbolica di ermafroditismo. Questo è il motivo per cui egli è delegato a distribuire parte della sua fortuna agli altri nelle riffe, dove si mettono in palio dei regali in natura, legati all'estrazione dei numeri del lotto. In genere di lunedì, giorno dedicato tradizionalmente al culto dei morti, avvengono, in vari punti della città, queste originali tombolate, accompagnate ad ogni numero estratto dalla spiegazione dei significati reconditi espressi nella "Smorfia". La più famosa estrazione avviene ancora oggi periodicamente nella chiesa di Santa Maria alla Sanità, conosciuta dal popolino come Monacone, all'uscita delle sottostanti catacombe di San Gaudioso. Il rituale è stato magistralmente descritto da Roberto De Simone nella Gatta cenerentola. In passato, come apprendiamo dalla Storia della prostituzione del Di Giacomo, vi erano luoghi, stabiliti dall'Autorità, dove travestiti e prostitute potevano liberamente esercitare, come l'Imbrecciata, che si trovava nei pressi di Porta Capuana, vicino al borgo di Sant'Antonio Abbate. Cominciò a svilupparsi intorno al 1530 ed in quell'area vennero progressivamente localizzati tutti i postriboli partenopei. Infine,in un editto emanato nel 1781, l'Imbrecciata fu riconosciuta come l'unico quartiere dove era ammesso il meretricio. Nel 1855, per evitare sconfinamenti, la zona fu delimitata da un alto muro di cinta con un solo cancello d'accesso, presidiato dalla polizia, che faceva cessare ogni attività poco prima della mezzanotte. Questa segregazione durò fino al 1876, quando fu consentita la prostituzione anche in altri quartieri. Nell'ambito di questo rione off limits vi era una strada frequentata solo dai travestiti, che si chiamava per l'appunto vico Femminelle, toponimo che tramutò prima in via Lorenzo Giustiniani ed oggi via Pietro Antonio Lettieri. A questa strada malfamata dedicò un intero capitolo Abele De Blasio, medico e scrittore, autore di un ancora letto e consultato Nel paese della camorra. Un'attenzione resa obbligatoria nel discettare di onorata società perché, già dal Settecento, tutto il quartiere era caduto sotto il controllo della malavita organizzata. Sotto la dominazione spagnola, impregnata di un cattolicesimo rigoroso e perbenista, gli omosessuali erano ghettizzati e tenuti sotto stretta osservazione. Non sappiamo quanti fossero, ma sappiamo che, se colti in flagranza, venivano puniti. Il 17 febbraio 1504 Ferdinando III, detto il cattolico, promulgò una legge che prevedeva pene severe non solo per gli omosessuali, ma anche per chiunque si fosse abbandonato ad atti di sodomia. Ad aumentare la severità delle sanzioni ci pensò poi Filippo II, il quale, il 28 luglio 1571, fece approvare una legge, che puniva addirittura i baroni, se gli stessi, nell'amministrare giustizia nei loro possedimenti, si fossero dimostrati indulgenti verso i cultori della via aborale. Soltanto nell'Ottocento, dopo l'Unità, il clima divenne più liberale e Napoli da capitale di un regno divenne, per anni, capitale dell'omosessualità europea, Achille Della Ragione
|