Napoli: Dopo mezzo secolo riapre la cattedrale di Pozzuoli, Ammiriamo i big del Seicento napoletano
Finalmente dopo 50 anni viene restituita alla fruizione la cattedrale di Pozzuoli, distrutta nel 1964 da un rovinoso incendio(fig. 1 - 2) ed è possibile ora ammirare, l’una affianco all’altra, le opere di artisti famosi(Artemisia Gentileschi, Giovanni Lanfranco, Paolo Finoglio, Agostino Beltrano, Cesare e Francesco Fracanzano) impegnati nella più importante committenza in area napoletana del secolo.
La critica solo parzialmente ha trattato dei capolavori conservati nel coro della chiesa(fig. 3) e ne manca una trattazione dettagliata, che in questa sede cercheremo di stilare discutendo delle singole tele, correggendo errori nelle attribuzioni e nello stesso soggetto dei dipinti. La più antica opera viene attribuita al Beltrano ed è la grande pala d’altare (fig. 4) raffigurante il Martirio dei SS. Gennaro, Filippo e Procolo (fig.5), eseguita per la Cattedrale di Pozzuoli intorno al 1635 su committenza di Martino Leon y Cardenas, vescovo della diocesi flegrea per circa venti anni dal 1631 al 1650. Per datare i dipinti di vari autori che facevano della Cattedrale di Pozzuoli una vera e propria pinacoteca ci si attiene a quanto riferito nelle quattro Relationes, visite che venivano fatte al patrimonio artistico periodicamente, i cui risultati sono conservati presso l’Archivio Segreto Vaticano e sono state studiati su microfilm e parzialmente pubblicati dalla Novelli Radice. Esse si sono svolte nel 1635, nel 1640, nel 1646 e nel 1649. Già nella prima il dipinto in esame viene citato, per cui a quella data era già in sede, in seguito nel 1646 si avanza come autore il nome di Guido bolognese “SS. Titularium Proculi et Ianuariy episcopi tabulam a Guidone Bononiense dipinta”, un ipotetico allievo del Lanfranco, che sappiamo attivo nella committenza assieme a Paolo Finoglia, Massimo Stanzione ed Artemisia Gentileschi. In quella del 1649 infine la tela viene descritta senza citare più il nome dell’artista, da alcuni identificato con Guido Reni. In seguito la critica ha proposto per la cona la paternità dello Schonfeld, ma un attento raffronto con altre due tele eseguite per la Cattedrale, firmate e datate dal Beltrano: il Miracolo di S. Alessandro (fig.6) e l’Ultima cena (fig.7), firmata e datata 1648, ci permettono di assegnare al Nostro Agostino con certezza il dipinto, il quale costituisce la sua prima opera certa, già sintomatica di una maturità di mezzi espressivi ed è sorprendente considerare come la pala d’altare principale sia stata assegnata ad un pittore che la critica odierna ritiene secondario a confronto di artisti del calibro della Gentileschi, del Lanfranco e dello Stanzione. La tela presenta caratteri schiettamente naturalistici con forti contrasti di luce, che evidenziano le figure in primo piano immerse in un ambiente classico con sullo sfondo superbe colonne, per le quali si può pensare ad un contributo del Codazzi e con la folla: monelli, contadinelle, matrone e uomini togati che assiste al supplizio. Da notare sulla destra la figura del soldato a cavallo con la lancia, che oltre a presentarsi in altre opere del Beltrano, come nel Martirio di San Sebastiano di collezione della Ragione, sarà una costante in tutte le tele del Gargiulo aventi come soggetto scene di supplizio. La composizione sviluppata nel senso dell’altezza risulta drammaticamente concitata e divisa in tre piani successivi con una moltitudine vociante sullo sfondo, al centro i soldati, impegnati ad evitare tumulti ed in primo piano i protagonisti in ordinato disordine. I colori sono particolarmente vivaci ed il suo realismo contenuto è immune da influenze stanzionesche, denotando già un personale indirizzo stilistico, che lo avvicina alle esperienze coeve del Falcone, suo coetaneo e della sua bottega. Ci si comincia lentamente ad allontanare dai rigorosi dettami caravaggeschi e le nuove soluzioni, pur sempre naturaliste ed in chiave di misurata eleganza, tendono a sviluppare un’adesione al dato reale, interpretando il sacro come aspetto della vita quotidiana. Il riferimento più cogente di questo aggiustamento stilistico che va sviluppandosi in questi anni, il quale caratterizzerà la fase prettamente falconiana dell’artista, è rappresentato dalle grandi tele eseguite dall’Oracolo: il Concerto e la Cacciata dei mercanti dal tempio, oggi conservate al Prado, segnate da un originale uso della luce “trattata con prevalenza dei chiari sugli scuri nel concreto spazio atmosferico in cui i particolari realistici, calati nella densità del colore, esaltano il sentimento di immaginose ma umanissime vicende” (Novelli). Un’influenza percepita in egual misura anche dal Finoglia, attivo anche lui proprio nel 1635 nella Cattedrale, dove esegue un San Pietro che battezza S. Aspreno (fig. 8), nel quale evidente è la sintesi tra forme antiche espresse in maniera moderna con la figura del santo circondata da un fremito di vita descritto con lucida evidenza. Nel Miracolo di S. Alessandro (fig. 6) il pittore si mostra invece con uno stile pervaso da un naturalismo temperato, che lentamente si aprirà alle suggestioni del pittoricismo ed alle soluzioni del classicismo romano bolognese. La tela è firmata ed anche se fosse apocrifa rispecchierebbe un’antica tradizione orale. La data presenta l’ultima cifra abrasa, per cui è diversamente collocata al 1646 o ‘49. L’Ortolani la leggeva, quando forse era ancora visibile, 1646. Essa risulta presente solo nell’ultima Relationes, quella del 1649, per cui questa è la data più probabile. Il Bologna vedeva nella pala una forte impronta del Falcone e forse del Grechetto napoletano, inoltre sono visibili i segni di un graduale avvicinamento allo stile stanzionesco, sebbene molte figure, in particolare quella del santo, evidenzino ancora palesi similitudini con l’opera più antica. Si confronti infatti la figura di San Procolo, in attesa dietro San Gennaro già inginocchiato, con quella si S. Alessandro che compie il miracolo di far sgorgare l’acqua dalla roccia, mentre lo stanno conducendo al supplizio, uguali gli atteggiamenti, sovrapponibili le fisionomie. Un altro personaggio patognomonico (fig. 6 bis), che compare identico, sia nell’affresco del Pagamento del tributo a Sennacherib, documentato al 1644 – 45, in S. Maria degli Angeli a Pizzofalcone, sia nel Martirio di S. Apollonia in collezione Mauro Calbi, è costituito dal fantolino a braccia protese in primo piano. Il dipinto è realizzato con una pennellata decisa, che dirige una luce marcata a costruire i profili delle spalle ed i visi di alcune figure come quella posta a sinistra nell’Ultima cena (fig.7), un’altra delle opere eseguite dall’artista per la Cattedrale, firmata e datata 1648 e nominata nella Relationes del 1649. Il quadro, di forma irregolare, imita e gareggia con quello eseguito da Stanzione per la chiesa dell’Eremo dei Camaldoli; esso, sconosciuto agli stessi specialisti per il lunghissimo periodo di segregazione in deposito e mai pubblicato, è una vera e propria galleria di volti estremamente espressivi ed utili per avanzare raffronti verso altre opere del Beltrano o per tentare nuove attribuzioni, come di recente il Leone de Castris, il quale ha attribuito al Nostro un Pescatore con cesta di pesci di collezione privata per la stingente somiglianza tra la fisionomia del barbuto e calvo pescatore e quella di alcuni apostoli raffigurati nella tela puteolana. Un’altra tela eseguita per il Duomo di Pozzuoli e purtroppo perduta nel rovinoso incendio del 1964 è il San Martino che taglia il mantello per il povero (fig. 9), di cui ci rimane tristemente solo una foto, nella quale possiamo apprezzare un significativo brano di paesaggio con un frondoso albero che domina la scena. Il quadro dovette probabilmente sostituire un’opera precedente, poiché è citata nella Relationes del 1649 la quale afferma: “altra più elegante e nell’aspetto bellissima del beato Martino qui stando a cavallo, aggiungemmo”. Il santo appare nelle vesti di un raffinatissimo giovane con largo cappello piumato, concreto ritratto della classe privilegiata del tempo. Il San Martino di Pozzuoli, inopinatamente sfuggito all’esame degli storici dell’arte, sembra essere ancora lontano da altri più illustri modelli e mostra una viva personalità, un impianto ancora libero ed arioso, a differenza del compassato Carlo di Tocco, conservato nella quadreria del Pio Monte della Misericordia, già pienamente ingabbiato dal modello stanzionesco. Un altro dipinto molto antico è quello eseguito da Paolo Finoglio (fig. 8), firmato “P.o Finoglio”, raffigurante San Pietro consacra S. Aspreno e non San Celso vescovo di Pozzuoli, come erroneamente indicato nello scarno foglietto distribuito in loco ai numerosi visitatori. Il soggetto iconografico era trattato in molte biografie dedicate al santo e diffuse a Napoli tra Cinquecento e Seicento. L’opera è ricordata nelle Relatio ad limina del 1640 e non nella precedente del 1635, per cui dovrebbe essere stata eseguita in quel lasso di tempo, una delle ultime fatiche napoletane dell’artista prima del suo definitivo trasferimento in Puglia, come già sostenuto in passato dal D’Orsi e dal D’Elia, il quale sottolineava anche un’impostazione battistelliana, più arcaica rispetto alle tele di Conversano. Il cromatismo del quadro, nonostante un recente restauro, è in gran parte perduto anche se si possono ancora apprezzare la tunica azzurro verde indossata da Pietro ed il manto ocra scuro, mentre S. Aspreno è avvolto da un piviale color porpora con i bordi e parte delle spalle giallo intenso. Il naturalismo delle ruvide mani e le aspre e straniate fisionomie dei protagonisti, contrastano con l’elegante esecuzione delle tre pale eseguite da Artemisia Gentileschi, le uniche note agli appassionati, perché negli ultimi anni si trovavano nelle sale di Palazzo Reale. Il San Patroba che predica al popolo di Pozzuoli (fig. 10) di Massimo Stanzione, una volta firmato, come riferiva Ortolani, è citato per la prima volta nella Relatio del 1640 e nonostante un restauro eseguito nel 1965 risulta molto danneggiato e secondo Sebastian Schutze difficilmente valutabile dal punto di vista stilistico. Esso raffigura San Patroba, primo vescovo di Pozzuoli su un basamento a tre gradini leggermente rialzato mentre predica al popolo della sua diocesi, indicando con la mano destra la croce. In ottimo stato di conservazione è viceversa lo Sbarco di San Paolo a Pozzuoli(fig. 11) del Lanfranco, firmato ed eseguito tra il 1636 ed il 1640. Il soggetto, alquanto raro, è raccontato negli Atti degli Apostoli (XX – VIII, 13 – 14). La pala è stata unanimemente giudicata dalla critica come una delle opere più innovative del periodo napoletano. Entusiastico il commento dell’Ortolani sulle pagine del catalogo della grande mostra tenutasi a Napoli nel 1938:”per l’originale effetto scenico del luminismo abbagliante e contrastato nel primo piano, la pittoresca fantasia del fondale con la nave che ammaina le vele, e nelle figure di contorno qualche accenno a soluzioni pittoriche della sua foga di freschista”. Le proporzioni delle figure, i corpi allungati, il tipo di volto degli uomini, la tavolozza calda, con prevalenza di rossi, gialli e bianchi, alternati a marroni e verdi, gli sfondi ed il chiaroscuro, sono tutti elementi che richiamano i quadri di storia romana, dipinti tra il 1634 ed il 1639, per il vicerè conte di Monterrey. “La violenza drammatica delle storie romane viene in questo dipinto moderata dal carattere solenne della scena” (Schleier). Vicino sulla parete destra del coro si trova La cattura di S. Artema, che per quanto firmato, è certamente opera della bottega, alla pari del Martirio dei SS. Onesimo, Erasmo, Filadelfio, Cirino (fig. 12). Prima di concludere con i dipinti di Artemisia, trattiamo di due pale, legate vagamente alla famiglia Fracanzano e nel tempo variamente attribuite. Partiamo da un’Adorazione dei pastori (fig. 13), certamente di Cesare, in base soprattutto alla fisionomia dei due angioletti posti nella parte alta della composizione dai classici capelli rossi, una sorta di firma criptata dell’autore. Il dipinto fu esposto nel 1954 (10 anni prima del rovinoso incendio) alla mostra sulla Madonna nella pittura napoletana del ‘600 a Napoli e Raffaello Causa, curatore della scheda, lo ritenne tra le cose più notevoli e rappresentative dell’artista, nonostante le ridipinture ottocentesche. Lo datò, erroneamente, agli anni 1645 – 46, in base alla pennellata”già tutta barocca, grassa, sfatta, allusiva, piena di luce”. Al suo fianco, nel lato alto del coro, è esposto il Cristo nell’orto degli ulivi (fig. 14), a lungo attribuito dalla critica ad una figura non ben definita di Anonimo fracanzaniano, nella quale confluivano dipinti di difficile attribuzione, oggi assegnati, parte a Nunzio Rossi, parte a Francesco Fracanzano ed è proprio a quest’ultimo che davo la paternità della pala puteolana nella mia monografia sull’artista: Francesco Fracanzano opera completa. Come tutti gli studiosi dell’ultima generazione avevo espresso il mio parere in base ad una foto, perché l’opera era da decenni relegata nei depositi. Oggi ragionevolmente riteniamo di poter attribuire la tela ad una collaborazione tra i due fratelli, per raffronti stilistici e per il racconto delle fonti che ci forniscono la circostanza della loro presenza nel cantiere del duomo, dove era conservato anche un altro dipinto: San Paolo che scrive l’epistola a Filomene (fig. 15), che la critica ha assegnato ora a Francesco, ora a Cesare, riscontrando i caratteri ora dell’uno ora dell’altro e che noi pensiamo possa essere il prodotto di una collaborazione familiare. Prima di concludere con la descrizione delle tre tele di Artemisia, vogliamo accennare ad una presenza spuria sulla parete sinistra del coro, dove figura un S. Ignazio di Loyola con San Francesco Saverio, assegnato al Ribera sul foglietto delle visite guidate; la notevole distanza non ci permette di escludere con certezza la paternità del dipinto, che appare di qualità scadente, ma la sua presenza è sicuramente anomala, perché in nessuna delle Relationes figura mai un quadro del valenzano. Il San Gennaro nell’anfiteatro (fig. 16) figura già nella Relatio ad limina del 1640, che descrive in sede 11 quadri, e probabilmente, assieme agli altri due è stato eseguito entro il 1638, quando la pittrice si trasferì in Inghilterra per assistere il padre ammalato. Nella pala il santo è gettato in pasto alle belve nell’anfiteatro Flavio di Pozzuoli, ma esse, due mastini napoletani (e non leoni) ed un orso, si chinano ammansiti al suo passaggio. La Gentileschi manifesta una maggiore tenerezza di tocco e di sfumature rispetto alle altre due opere, in San Procolo, diacono della cittadina flegrea, inginocchiato con le mani al cielo ad impetrare un intervento divino e nelle figure poste a sinistra della composizione, mentre nello sfondo di architettura in rovina si può ipotizzare la collaborazione dello specialista Viviano Codazzi, a Napoli dal 1634 e nel cielo baluginoso in alto sulla sinistra il pennello di Micco Spadaro. Nell’opera, pervasa da un aspro realismo, vi è un richiamo al Falcone ed alla fase naturalista del Beltrano e dello Stanzione, mentre nei bianchi splendenti delle cotte sacerdotali vi è l’imprinting della splendida cromia del padre Orazio. Nella rappresentazione dei mastini vi è infine un collegamento ai modi di Francesco Fracanzano, a dimostrazione che i pittori napoletani o napoletanizzati amavano copiarsi nei dettagli di maggior impatto visivo. Nell’Adorazione dei magi (fig. 17) compariva una firma che si è rivelata apocrifa ed anche in questo quadro si può ipotizzare la collaborazione del Codazzi e del Gargiulo. Alcuni studiosi hanno pensato all’aiuto o quanto meno all’ispirazione per la realizzazione di alcune parti dell’opera: Roberto Longhi dava per scontato un intervento dello Stanzione nella realizzazione del volto della Vergine, mentre più di recente Stefano Causa ha pensato al pennello di Onofrio Palumbo. Questa serie di argomentazioni è un po’ lo specchio dell’ondeggiante atteggiamento stilistico dell’artista negli anni centrali della sua attività all’ombra del Vesuvio, nei quali Artemisia influenzava ed era influenzata dall’ambiente artistico circostante. Tuttavia è indubitabile che alcuni caratteri tipicamente napoletani si erano impressi indelebilmente nel suo linguaggio, dal volto stanzionesco della Vergine a questi re, spagnoleggianti al massimo, che non si inchinano, ma si prostrano umilmente come era comune abitudine nella Napoli vicereale. L’ultimo dipinto della serie, raffigurante i SS. Procolo e Nicea (fig. 18) è un’immagine austera e si direbbe che la pittrice ha scelto un soggetto devozionale di uso liturgico, anziché ritrarre l’orrore e la drammaticità dell’incontro con bestie feroci. Una composizione equilibrata e statica, se paragonata alle opere trasudanti energia e vitalità della sua fase artistica precedente. Ci soffermiamo un attimo sul soggetto, generalmente indicato come Procolo e Nicea, mentre i due personaggi rappresentati, entrambi santi sono madre e figlio. (per un quadro storico archeologico della cattedrale consiglio di consultare in rete il mio articolo: Da un tempio greco romano alla cattedrale di Pozzuoli) Achille della Ragione
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