Napoli: La furia di un popolo incazzato
Sono tedesco, venni da Berlino per far la guerra contro l'Inghilterra; ma poi - chiamalo caso oppur destino - 'e mmazzate ll'avette proprio ccà!.
Ah, si... mo mme ricordo... le mazzate ch'avisteve da noi napoletani... E quanto furon... quattro le giornate, si nun mme sbaglio: o qualche cosa 'e cchiù?.
Furon quattro. Mazzate 'a tutte pizze: prete, benzina, sputazzate 'nfacccia... Aviveve vedè chilli scugnizze che cosa se facettero afferrà!.
Caro Signore, 'o nuosto è 'nu paisiello ca tene - è overo - tanta tulleranza; ma nun nce aimma scurdà ca Masaniello apparteneva a chesta gente ccà.
Questi versi immortali di Totò rendono meglio che le immagini del celebre film di Nanny Loy una delle più belle pagine della storia napoletana contemporanea: la gloriosa rivolta di popolo del settembre 1943. Settantasei ore di guerriglia urbana; alcune migliaia di cittadini appartenenti alle più diverse fasce sociali e generazionali (civili e militari, uomini, donne, ragazzi) in vario modo coinvolti negli scontri a fuoco; centinaia di morti e feriti: è stata questa la risposta di un popolo alla fame, alla paura, all'insicurezza, all'inesorabile flagello della guerra, all'ondata di terrore scatenata dai tedeschi con la collaborazione dei fascisti locali. Il 12 settembre 1943 i soldati tedeschi entravano nell'università, saccheggiavano, asportavano, attrezzature scientifiche, sparavano colpi di mitragliatrice all’impazzata e infine appiccavano il fuoco. Intanto avevano rastrellato tutta la popolazione dei dintorni l'avevano obbligata a schierarsi di fronte alle Scale dell'università, dove avevano condotto un marinaio accusato di aver lanciato una bomba contro i tedeschi. Un uomo in borghese, italiano, controllava e dava ordini alla popolazione. «E lui ci ordinò di inginocchiarci davanti al rogo e davanti a tanta rovina additandoci il disgraziato marinaio (...) Tre sgherri all'ordine del superiore, con fucili sparavano addosso all'infelice, il quale cadde rantolando, poi uno dei tre assassini freddò con un colpo magistrale alla nuca il poveretto (...) L'uomo in borghese ci fece cenno che dovevamo applaudire alla sentenza pronunciata, cosa che una porzione fece, altri accennò al battimano ma non lo eseguì». Questo è il racconto (che il custode dell'ateneo fece allora alla commissione d’inchiesta alleata. Si tratta di uno degli eventi più duri e significativi dell'occupazione tedesca, breve ma violentissima, che si svolse a Napoli tra l'8 settembre e il primo ottobre del 1943. Quello stesso giorno a piazza Borsa erano stati fucilati 6 ostaggi fra cui due finanzieri e due carabinieri, 8 militari erano stati uccisi di fronte al palazzo dell'ammiragliato. Quattordici carabinieri venivano fatti prigionieri, obbligati a marciare fino a Teverola e fucilati dopo aver loro imposto di scavarsi la fossa. Ma non erano solo i militari a combattere e morire, tutta la città era attraversata da conflitti a fuoco e molte erano le vittime. Dopo seguirono una serie di ordini e azioni di grande durezza, che portarono alla vera e propria insurrezione: l'imposizione dello stato d'assedio, l'ordine di sgomberare la fascia costiera, quello rivolto agli uomini nati fra il 1910 e il 1925 di presentarsi per il lavoro obbligatorio e infine, di fronte alla disobbedienza diffusa, l'ordine del 26 settembre di operate un rastrellamento a tappeto con la forza. A questo punto i giovani si organizzarono per resistere, aiutati dal resto della popolazione. «Quelli mi cercavano, mi volevano portare prigioniero schiavo. Se mi vogliono, mi devono portare morto! Orizzontalmente! lo dissi». Un’analisi ravvicinata dei combattimenti apre squarci cruciali sull'insurrezione napoletana, portando alla luce uno spazio sociale articolato, uomini donne; e ragazzi con obbiettivi, luoghi da difendere. La lotta contro le razzie degli uomini, il conflitto sul cibo e sui beni materiali, la difesa dei luoghi simboli e cruciali per la vita del quartiere e della città, unite alla ribellione contro la guerra e le antiche prepotenze dei fascisti, sono all'origine di un’insurrezione che mostra così tutta la sua politicizzazione . I Napoletani furono coraggiosi non ci pensarono due volte ad armarsi e a combattere contro i tedeschi, e lo fecero sulla base di spinte concrete, come in tutte le altre varie parti d'Italia, e di una forte e antica identità territoriale. Nel settembre del 1943 l'Italia era probabilmente molto più unita e simile di quanto si sia pensato fino ad ora. Saranno i due anni successivi a dividere strade e animi e a spingere nell'oblio le pagine della resistenza meridionale. Napoli. «Abbiamo finto, avimme sempe fatto apposta, ambiguità a quintali: doppio gioco, doppia faccia, doppio cuore. per paura - ma 'a verità è che v'avesseme voluto sempe sputà 'n faccia! Jatevenne, rikkiune». I ricchioni in questione sono i tedeschi in fuga da Napoli nel settembre 1943, e poiché siamo a teatro (che allude sempre al presente) sono anche i fantasmi secolari della città. Inutile stare a elencarli, perché Napoli è il luogo comune del male civico: della plebe che non si è fatta popolo, della classe dirigente che non ha diretto, ma spadroneggiato, della camorra, della munnezza. Fenomeni universali esposti con barocca grandiosità. «Napoli è lo spaventapasseri d'Italia, tutto qui» dice Enzo Moscato, che ha scritto, dirige e interpreta Napoli '43, un cunto leggendario e corale delle Quattro giornate (28 settembre – 1° ottobre) in cui la città impartì all'esercito tedesco l'unica, bruciante, sconfitta popolare. Un’insurrezione in principio sottovalutata dalla storiografia ufficiale, perché difficile da inquadrare negli schemi della lotta partigiana e ancor più di quella di classe. Poca ideologia, passaparola da un quartiere all'altro, tank bloccati nei vicoli stretti e cessi lanciati dalle finestre, combattenti poco armati e sassaiole di scugnizzi. È una memoria rimossa, scomoda, perché il popolo che si è liberato dai Tedeschi si è poi arreso a un regime collaborazionista con mala politica, corruzione, criminalità, violenza, arretratezza. Anche oggi i Napoletani dovrebbero insorgere ma purtroppo «c'è stata la mutazione antropologica: Pasolini diceva che Napoli, con il suo atteggiamento fuori dalla storia, non l'avrebbe subita. Ma non è vero. È stata colonizzata dalla peggiore modernità: le vaiasse stanno tutte su Facebook». «Nessun partito, tra l'8 e il 27 settembre, esisteva a Napoli, o fu in grado di preparare una insurrezione, né la preparò». Ma già verso la sera del 27 settembre, a Capodimonte, «un gruppo di coraggiosi faceva prigionieri sei soldati tedeschi e sei fascisti ( ... ) Verso il mezzogiorno, invece, del 28 settembre la città era in fiamme e i colpi dei fucili e delle bombe a mano sibilavano e crepitavano in tutti i rioni». Mentre comparivano navi angloamericane a Capri, impossibilitate ad avanzare a causa delle mine, e la V armata americana si avvicinava a Napoli, centinaia di combattenti comparvero al Vomero e al Museo, decine e decine al Vasto alla ferrovia, a Montecalvario, a via Foria, i tedeschi avevano autoblinde, mitragliatrici. alcuni carri armati e cannoni. i napoletani soprattutto fucili e bombe a mano. Ad aiutare i tedeschi accorsero parecchi fascisti, come cecchini soprattutto, Il comando tedesco restò incerto tra l'accelerazione della fuga di fronte all'avanzata anglo-americana e il castigo per i rivoltosi che, fra l'altro, tenevano sotto assedio una cinquantina di soldati. asserragliati al campo sportivo del Vomero con 47 ostaggi. Le barricate impedirono ai carri armati tedeschi di scendere dalle alture nel centro di Napoli. ormai sotto il controllo dei patrioti. Il comandante Scholl, deciso a lasciare la città, avviò una trattativa con gli insorti. e il 30 settembre chiese una scorta di patrioti che li accompagnassero, per garantirne l'incolumità. «Se non che, a notte alta, assai prima dell'ora stabilita, il colonnello tedesco con gli ufficiali e gli uomini addetti al Comando, aveva lasciato la sua residenza, e si era avviato fuori della città, abbandonando al loro destino i colleghi dell'albergo Bologna, insieme con il Magg. Sakau e i soldati. che il giorno innanzi avevano combattuto al Campo Sportivo!», Ancora il 1° ottobre però da Capodimonte un cannone tedesco continuò a sparare sul centro antico, ammazzando e ferendo passanti e donne in cerca di pane. Gruppi di fascisti continuarono a sparare tra il Vomero e Montecalvario, poi scomparvero. Verso le 11 per tutta Napoli si sparse la voce che i primi reparti americani. su automezzi pieni di polvere, erano entrati in città. Napoli aveva cacciato i tedeschi. in una «concordia perfetta», antinazista e antifascista, di partigiani liberali e comunisti. militari e scugnizzi. professionisti e operai, uomini e donne. All'eroismo della rivolta popolare e civile seguì la disperazione e la fame nel terribile biennio 1944-45, dominato dal mercato nero, dal contrabbando, dalla prostituzione, Come ebbe a scrivere il grande regista John Huston, allora capitano della V Armata, che girava documentari di propaganda: «Gli uomini e le donne di Napoli erano un popolo diseredato, affamato, disperato, disposto a fare assolutamente tutto per sopravvivere. L'anima della gente era stata stuprata, Era veramente una città senza Dio». Al referendum del 1946 la città delle Quattro Giornate darà l'8O per cento dei voti alla monarchia. L'insicurezza reale o percepita a - Napoli è un capitolo a parte. Reso più fumoso da un repentino silenzio dell'autorità costituita. I cronisti di nera lamentano una certa reticenza: è sparito il mattinale della questura che aggiornava sui reati. E’ stato acquisito anche un dispositivo, il Tetra, che cripta le comunicazioni radio e impedisce la gloriosa pratica dell'intercettazione per arrivare sul delitto prima dalla Volante. E guai a chiedere un favore a un amico poliziotto: ogni contatto è tracciabile. Ma il pugno di ferro sull'informazione non riduce i reati di strada, che la crisi e il vuoto di potere ai vertici della camorra alimentano. Mentre spaccio, estorsioni, usura criminalità economica procedono con odiosa indifferenza per arresti e sequestri. E’ cambiato anche il numero degli abitanti cinquantamila in meno nell'ultimo decennio. Si è gridato allo spopolamento di una delle città più popolose al mondo. «Non è un fenomeno recente: Napoli perde abitanti dal1971 un calo connesso alla deindustrializzazione. Oggi le motivazioni sono legate soprattutto alla casa. Giovani coppie che non possono permettersi un appartamento in città e si spostano in provincia, famiglie sfrattate o che non riescono a pagare il mutuo. Resistono i benestanti e gli inquilini delle case popolari, che a Napoli sono tante, il 13 per cento dell'edilizia abitava. Una tendenza non tanto diversa da quella delle altre grandi città, ma l'esodo dei giovani in cerca del lavoro, quello sì, è allarmante e non quantificabile: «Manutentori e laureati, partono tutti. Va a finire che restano quelli che non hanno neanche i soldi per il treno e i figli di papà più mediocri che ne ereditano le professioni». Anche lo spartiacque del terremoto è un luogo comune, ma non in questi termini: «La pioggia di soldi per la ricostruzione ha introdotto un sistema economico fondato sulla accelerata circolazione finanziaria: con Ciriaco ce n'era per tutti e l'edilizia era il motorino d'avviamento della finanziarizzazione dell'economia». Così addio al lavoro; tutti rentier (che vivono di rendita) o morti fame. E adesso? «Lo sa che scugnizzo ha, un'etimologia piemontese? Viene da gugnin, parola usata dai carabinieri sabaudi per definire i monelli. Ecco, dovremmo liberarci di quell'esotismo che ci ha affibbiato il Nord e che abbiamo introiettato così bene. Potremmo anche smettere di voler essere come Bologna e tentare di essere al meglio di Napoli. Senza aspettare uomini del destino che ci infondano la fiducia dall'alto o procacciatori di fondi, l'unico ruolo che la nostra classe dirigente ha saputo svolgere, senza prendersi un rischio o una responsabilità». Achille della Ragione
|