Napoli: Un magistrato in prima linea
Raffaele Cantone nato nel 1983 è uno dei più celebri magistrati italiani. Nato a Napoli, cresce a Giugliano. È entrato in magistratura nel 1991. È stato sostituto procuratore presso il tribunale di Napoli fino al 1999, anno in cui è entrato nella Direzione distrettuale antimafia napoletana di cui ha fatto parte fino al 2007. Si è occupato delle indagini sul clan camorristico dei Casalesi, riferite anche nel noto best seller di Roberto Saviano Gomorra, riuscendo ad ottenere la condanna all’ergastolo dei più importanti capi di quel gruppo fra cui Francesco Schiavone, detto Sandokan, Francesco Bidognetti, detto Cicciotto ‘e Mezzanott, Walter Schiavone, detto Walterino, Augusto La Torre, Mario Esposito e numerosi altri.
Si è occupato anche delle indagini sulle infiltrazioni dei clan casertani all’estero; in particolare in Scozia, dove è stata individuata una vera e propria filiale del clan La Torre di Mondragone dedita al reinvestimento in attività imprenditoriali e commerciali di proventi illeciti, in Germania, Romania ed Ungheria dove esponenti del clan Schiavone durante la latitanza si erano stabiliti ed avevano acquistato beni immobili ed imprese. Ha curato il filone di indagini che hanno riguardato gli investimenti del gruppo Zagaria in Parma e Milano facendo condannare per associazione camorristica un importante immobiliarista di Parma. Vive tutelato dal 1999 e sottoposto a scorta dal 2003 in quanto gli investigatori scoprirono un progetto di un attentato ai suoi danni organizzato dal clan dei Casalesi. Oggi lavora presso l’Ufficio del Massimario della Suprema Corte di Cassazione. Il 18 giugno 2013, il Presidente del Consiglio dei ministri Enrico Letta, nomina Cantone, componente della task force per l’elaborazione di proposte in tema di lotta alla criminalità organizzata. È autore di numerosi articoli pubblicati sul quotidiano Il Mattino e di numerose pubblicazioni in materia giuridica, tra cui tre monografie dal titolo rispettivamente I reati fallimentari, Il giusto processo, La prova documentale. Collabora con riviste giuridiche, quali Cassazione Penale, Rivista Penale, Archivio nuova procedura penale e Gazzetta Forense. Nel 2008 ha pubblicato per la Mondadori, Solo per giustizia, opera autobiografica in cui ripercorre la sua esperienza di magistrato di prima linea. Del 2010 (Mondadori Editore, per la collana “Strade blu”, come per il precedente scritto diventato in pochi mesi best seller), è I Gattopardi, scritto in conversazione con il giornalista dell’Espresso Gianluca Di Feo. Cantone, con il suo stile incisivo e diretto, guida il lettore nello scenario delle mafie di oggi: non più “coppola e lupara”, ma “agenzie di servizi” che molti, tra imprenditori, politici e professionisti scelgono liberamente di contattare e di farci affari. Una mafia in giacca e cravatta, quella di gattopardi che si muovono tra collusioni e connivenze, alla ricerca di vantaggi e favori. Nell’aprile del 2012, per la Collana “Frecce” di Mondadori editore, esce Operazione Penelope; un libro ove Cantone affronta il tema mafie analizzando una risposta ad un interrogativo, contenuto nel sottotitolo al testo: “Perché la lotta alla criminalità organizzata e al malaffare rischia di non finire mai”. Una tela, quella che nel poema omerico, Penelope realizza e disfa nell’attesa del suo Ulisse, che, sebbene dopo lungo tempo, riuscirà a tornare ad Itaca. Eccola, la metafora solo apparentemente pessimista, che Raffaele Cantone prende a modello, analizzando le dinamiche che ruotano intorno alle mafie ed alle possibilità di riuscire nell’opera di contrasto ad esse. Con Football Clan, pubblicato con Rizzoli, Raffaele Cantone e Gianluca Di Feo ricostruiscono i rapporti tra mafia e pallone. Ma non è solo un garbato atto d’accusa a un sistema così indulgente con se stesso da chiudere sempre gli occhi davanti a contaminazioni sempre più evidenti. È anche una sorta di breviario, la storia di un fenomeno da non sottovalutare ricostruita con il gusto dell’aneddoto (Marco Imarisio, per il Corriere della Sera). È da anni fautore del sequestro dei beni della mafia e nello stesso tempo riconosce che si debba cominciare a discutere di carriere separate per i magistrati come si evince da due lucidissimi articoli comparsi di recente su “Il Mattino”. Non basta arrestare un boss, metterlo sotto processo e inchiodarlo per anni al carcere duro. No non basta davvero bisogna fare di più, a partire dall’aggressione dei patrimoni, dalla confisca dei beni criminali, vera svolta nella lotta alle mafie. È il punto centrale dell’intervento di Raffaele Cantone, per anni pm anticamorra, oggi al Massimario della Cassazione, nonché componente della task force della criminalità della Presidenza del Consiglio. Punto di partenza è la legge Rognoni-La Torre, dopo l’omicidio di Della Chiesa, la necessità di rendere sempre più efficace la riappropriazione dei beni confiscati in vista di un impegno sociale. Eccola la «difficile sfida della legalità e l’incompiuta dei beni confiscati alle mafie» terreno di incontro di approcci giuridici e culturali differenti. Spiega Raffaele Cantone: «Non è solo un problema economico, ma c’è anche una questione di consenso: cosa significa togliere la villa al boss, quella in cui venivano ricevuti affiliati o complici, quella in cui il boss manifesta il suo potere tutti i giorni? Significa togliere consenso alla camorra, oltre a rendere meno stabile la sua posizione economica. Ma c’è anche un rischio inverso: immaginiamo una palazzina sequestrata a un boss che giace da anni abbandonata, vandalizzata, che sensazioni provoca in seno all’opinione pubblica? ». Stando alla relazione del magistrato che vive sotto scorta dal 2007, sul fronte delle «confische sono stati fatti enormi passi in avanti, tanto che ormai si utilizzano questi strumenti anche per reati come la corruzione, solo che non c’è ancora una stima compiuta ed esaustiva di quanto è stato confiscato. Basti pensare che i beni immobili confiscati, in Italia, sono 11 mila unità». Ma qual è la sfida nei prossimi anni? «Puntare sulla zona grigia - insiste Cantone - sulle collusioni con l’imprenditoria deviata, sulle strategie manageriali contigue alle mafie e non solo». A cosa fa riferimento il magistrato Cantone? Torna l’esempio della bacchetta magica, torna la domanda del procuratore Colangelo: se chiudessimo i conti con la camorra, potremmo dirci al sicuro per il futuro? «Ovviamente no - ribadisce Cantone -, ed è questo il motivo che ci spinge a rendere più efficace l’agenzia dei beni confiscati, per una antimafia del fare. Ma bisogna insistere - avverte Cantone - utilizziamoli di più, magari come start up di aziende giovani». Inevitabile a questo punto uno sguardo alla tragedia ambientale, alla terra dei fuochi, a quanto avviene anche nel territorio di Giugliano, comune d’origine dello stesso Cantone: «Penso alle bonifiche, perché non prendere il denaro al primo degli ecomafiosi e utilizzarlo per la bonifica?». Poi, intervistato dai tg, Cantone fa riferimento alla Resit, al processo penale culminato nel sequestro, alla necessità di insistere proprio sulle confische e sul reimpiego dei capitali tolti alla camorra per la bonifica di un territorio martoriato. Un’agenda impegnativa, quella dettata da Raffaele Cantone, che sintetizza così, in tre punti, la svolta per liberarsi dalla morsa della camorra e di tutte le mafie: «occorre rendere effettivo il controllo dei beni confiscati; poi bisogna organizzare una gestione economica degli stessi beni, magari assegnandoli a coop di giovani, per garantire lo start up di aziende sane e pulite; e c’è un terzo punto, quello più controverso: la vendita dei beni, delle ex proprietà mafiose, che è un percorso delicato, ma fondamentale». É vero che nell’ultimo periodo spesso (ma non sempre) sia prevalsa nella magistratura una logica di mantenimento dell’esistente che l’ha portata a non cogliere (almeno nell’immediatezza) aspetti positivi presenti in qualche riforma. La modifica dell’ordinamento giudiziario, ad esempio, dopo gli opportuni aggiustamenti introdotti dall’allora Guardasigilli Mastella ha aspetti discutibili ma anche parti condivisibili; ad esempio, la temporaneità degli uffici direttivi, la tipizzazione degli illeciti disciplinari, l’introduzione di meccanismi molto rigidi per cambiare funzioni (cioè per passare da pm e giudice e viceversa). Quell’atteggiamento conservatore, però, - è bene ricordarlo - nasceva (e persiste) anche per una posizione culturale di una parte della magistratura ma soprattutto come risposta difensiva nei confronti di chi le riforme non le voleva per ammodernare la giustizia ma in una logica punitiva. Diventa difficile non porsi in una prospettiva di arroccamento quando uno dei possibili interlocutori del dialogo sulle riforme nel corso degli anni ha vomitato di tutto nei confronti dei magistrati, dal considerarli antropologicamente deviati, all’appellarli («a prescindere» direbbe Totò) «toghe rosse» quando si occupano di alcuni affari, al mettere in discussione persino l’indipendenza della Cassazione (considerata, fino a qualche giorno prima, l’unico giudice «affidabile»), fino a proporre una riforma «epocale» inaccettabile per qualsiasi democrazia occidentale. La cultura e le idee giuridiche espresse anche di recente - «le sentenze si rispettano se sono condivisibili» e chi dovrebbe deciderlo quando lo sono? forse il condannato - hanno rappresentato, quindi, non solo un comodo alibi ma, purtroppo, robuste giustificazioni a chi sostiene che stando così le cose è meglio non toccare niente. Quando finiranno questi attacchi continui alla magistratura, una parte consistente di essa sarà ben lieta di discutere laicamente di riforme, tenendo fermo un unico principio irrinunciabile, quello dell’indipendenza e dell’autonomia sia dei giudici che del pm, guarentigia tipica di uno stato liberale e di diritto. Sul resto potranno forse cadere molti tabù; per me che, pure sono nettamente contrario alla separazione delle carriere, non sarebbe scandaloso, ad esempio, aprire un dibattito sul tema e poter finalmente spiegare ai non prevenuti che chi difende sul punto il sistema attuale ha più a cuore la centralità della giurisdizione di chi propugna l’alternativa, senza comprenderne i ben maggiori rischi proprio sul piano delle garanzie per il cittadino. Si potrà riprendere a parlare di interventi sul sistema delle impugnazioni penali - non certo come fu fatto nel 2005 con una modifica varata in un’ottica punitiva per il pm e giustamente demolita dalla Corte Costituzionale - della custodia cautelare e della tipizzazione del concorso esterno in associazione mafiosa, e questo per restare ad alcuni esempi riguardanti la giustizia penale. Ci sono molte altri temi su cui aprire un confronto costruttivo; la speranza è che le parole e la moral suasion del Presidente della Repubblica possano creare le condizioni favorevoli per cominciare a mettere in cantiere quei cambiamenti di cui l’Italia e gli Italiani hanno effettivo bisogno. Incontrai Cantone alla Feltrinelli di Napoli durante un dibattito sulla “monnezza” che in quei giorni affogava la città da poco era uscito il mio libro sull’argomento: “Monnezza viaggio nella spazzatura napoletana” (consultabile in rete), il quale aveva destato scalpore, ma soprattutto Prodi aveva deciso di localizzare in zona militare i siti per la raccolta della spazzatura, onde evitare che la magistratura li sequestrasse, perché non a norma. Chiesi a Cantone, circondato dalle sue guardie del corpo che non lo lasciavano un istante: “Se lei avesse notizia di un sito di raccolta non in regola posto in zona militare come si comporterebbe?” “Lo sottoporrei a sequestro” “Grazie”. Passa una settimana ed alla Reggia di Portici si svolge un concerto; seduto vicino a me il Procuratore Galgano, che avevo conosciuto in occasione di una mia conferenza presso un rotary napoletano. Gli rivolgo la stessa domanda posta una settimana prima a Cantone, ma la risposta è diametralmente opposta! “Assolutamente non interferirei con la procura militare!”. Una lampante dimostrazione della oggettività della giustizia. Il secondo è un incontro mancato doveva venire in visita al gruppo universitario di Rebibbia, ma sembra, voci di corridoio, volesse farsi accompagnare fino all’aula dalla sua scorta armata, possibilità contraria ad ogni norma. Peccato perché gli avrei posto un altro caso di scarsa oggettività della giustizia. Anni fa mi capitò di andare sulle prime pagine dei principali dei principali quotidiani, i quali riferivano che io avessi commesso interruzioni di gravidanza su minorenni, per cui ero stato condannato. Notizia assolutamente falsa. Chiesi un risarcimento pecuniario ai vari giornali e la questione fu posta all’attenzione di 7 magistrati diversi. Ognuno espresse una sentenza diversa: 3 affermarono che le testate avevano espresso il diritto di cronaca 4 stabilirono dei risarcimenti da 20 a 200 milioni Alla faccia dell’oggettività della giustizia. Achille Della ragione
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