Napoli: Il piu' grande di tutti i napoletanisti
Vittorio Paliotti è senz’ombra di dubbio il più grande tra i napoletanisti. Nato a Napoli nel 1930, è anche instancabile giornalista, eccellente scrittore e valido commediografo. Non passa settimana senza che i lettori de Il Mattino possano gustare qualche suo articolo erudito, ma scritto con una prosa accattivante, sui misteri e le tradizioni partenopee, che egli conosce come nessun altro, da vero e proprio tuttologo. Esperto di vernacolo, ebbi modo di conoscerlo una quarantina d’anni fa, quando tradusse … dall’italiano un libro di poesie del mio amico Gian Filippo. I suoi volumetti sono stati letti da tutti coloro che vogliono conoscere la napoletanità ed io per primo li ho più volte divorati e considerati una bussola imprescindibile per chi voglia affrontare l’argomento.
Come giornalista esordì nel Candido di Giovanni Guareschi ed ha collaborato con Oggi, Epoca e Gente. Documentarista per la RAI, è stato autore nel 1973 del libro La camorra, da cui è stato tratto nel 1978 lo sceneggiato televisivo Storie della camorra con, fra gli altri, Massimo Ranieri, Luigi Vannucchi, Renzo Palmer e Mariano Rigillo. A questo lavoro è poi seguito, nel 1993, Storia della camorra. Dal ‘500 ai nostri giorni, pubblicato da Newton & Compton. E’ stato anche autore, nello stesso anno, di uno studio sul quartiere napoletano di Santa Lucia: Santa Lucia il mare che diventa Napoli. Ricordiamo i suoi romanzi: Casa con panorama, Spara, amore mio, Donna di salvataggio, La strada delle maschere, La luna fredda, Dentro di me una strega e le sue commedie: Casa con panorama (dal testo letterario omonimo, messa in scena da Giuseppe Di Martino, con musiche di Roberto De Simone, protagonisti Angela Luce, Ugo D’Alessio e Vittorio Mezzogiorno), Ho sposato la più grande (regia di Giuseppe Di Martino, protagonisti Luisa Conte e Pietro De Vico). Lungo l’elenco dei suoi scritti divulgativi: Capri amori e sospiri (raccolta di racconti su Capri), Napoli nel cinema (scritto con Enzo Grano), Forcella la casbah di Napoli, Totò principe del sorriso, Salone Margherita. Una storia napoletana. Il primo cafè-chantant d’Italia; dalle follie della bella époque all’avanspettacolo e oltre…, In Campania, La macchietta, napoletani si nasceva, Il Vesuvio una storia di fuoco, La satira a Napoli, San Gennaro, Mi disse Napoli, Maria Malibran, Napoli dopo la nottata, Proverbi napoletani, Santa Lucia il mare che diventa Napoli, Storia della canzone napoletana, Storia della camorra, Napoli sconosciuta, Il Vesuvio con la cipria, Vacanze dorate, Elogio del gatto, Napoli all’aperto, Il paradiso imperfetto, Il romanzo d’avventure – da Robinson a Tex Willer. Per Bompiani ha curato la pubblicazione di Il teatrino del Pallonetto e Di riffe o di raffe, opere postume di Giuseppe Marotta . Per i 150 anni dell’unità d’Italia ha scritto un libro sulle canzoni che rappresentano, con la loro colonna sonora, il nerbo per ripassare la nostra storia: L’Italia chiamò, 150 anni di canzoni nazionali e politiche. E poiché Paliotti sa che Napoli è capitale europea, lo studio non si ferma entro i confini daziari ma spazia su più ampi orizzonti, di geografia e di tempo. A Napoli molto comincia e tutto, purtroppo, finisce quindi nessuna meraviglia se pure il cammino della canzone politica parte all’ombra del vulcano. Anno 1386, la protesta contro la regina Margherita Durazzo d’Angiò è in musica: Frusta qua, Margheretella, ‘ché sei tropo scandalosa… Fatale che la politica, nel correre del tempo, s’impossessi delle canzoni, le manipoli, ne sfrutti tutta la forza di penetrazione, talvolta per degnissimi fini. E’ napoletano pure il canto popolare del Risorgimento, del 1820, figlio dell’Inno della Repubblica del 1799 di Vincenzo Mattei e Domenico Cimarosa: Bell’Italia, ormai ti desta. Italiani, all’armi, all’armi! Altra sorte a noi non resta che di vincere o morire! La storia peggiora, vennero le guerre coloniali, Roberto Bracco scrisse Africanella, Gea della Garisenda intonò A Tripoli avvolgendo nel tricolore il bel formato corpo. E poi fu il massacro della prima guerra mondiale, la rabbia per la disfatta di Caporetto, il riscatto e la vittoria. La carica venne da un napoletano impiegato alle Poste, E. A. Mario, che andò a diffondere La leggenda del Piave nelle trincee, grazie a permessi non retribuiti. All’inizio ne scrisse tre parti, la quarta l’aggiunse quando Armando Diaz completò la sua avanzata. Ogni tanto qualcuno propone di rimpiazzare Mameli con La leggenda. E poiché la storia peggiora, fu il tempo di un’altra marcia, quella su Roma. Il fascismo capì subito l’importanza della propaganda canora e all’inizio riciclò l’inno degli Arditi. Poco dopo s’affidò ad un canto universitario di Nino Oxilia e Giuseppe Blanc, Commiato, e lo trasformò in Giovinezza, paradiso di bellezza; l’ultima riga del ritornello, eia, eia, alalà, la rubò a Gabriele D’Annunzio. A sinistra composero Bandiera rossa, i futuri democristiani Bianco fiore, per un ventennio perdenti. Vennero altre guerre coloniali, Faccetta nera fu il volto di un razzismo spacciato per sentimentale. Scoppiò una seconda feroce guerra. Il regime, scacciato dalla capitale, si rifugiò a Salò, i camerati cantarono La canzone strafottente, i partigiani Bella ciao. A Napoli gli eterni sconfitti crearono La cantata del povero Cristo, sbattuto a ccà e a llà. Il libro si chiude con una nota di speranza, il rilancio dell’Inno di Mameli ad opera del presidente Carlo Azelio Ciampi (e poi di Giorgio Napolitano). L’Italia s’è desta? Magari. A conclusione una preziosa antologia, utile anche per rilevare che i canti patriottici, specie quelli nati a Napoli, esprimono la cultura popolare e raramente hanno toni davvero guerrafondai: in primo piano o sullo sfondo si profilano sempre una mamma o un’innamorata. La giusta conclusione nella prefazione di Paliotti: Mai rinnegare la propria storia, non più guerre però. E per conoscere lo stile colto e divulgativo, vogliamo riproporre un brano di Paliotti, scritto in occasione dell’abbattimento del celebre pino di Posillipo, immortalato in milioni di cartoline. Partendo dall’episodio, triste ma necessario, l’autore ci fa una lezione sul vedutismo napoletano, per chiudere con una serie di leggende ambientate lungo una delle più belle arterie napoletane, via Posillipo: Fu abbattuto nel 1984, ormai vecchio e ammalato. Aveva resistito 129 anni, ritratto da pittori e fotografi fino a diventare il simbolo della città. Un disegno di Giacinto Gigante, senza il pino, permette di stabilirne la data di nascita sul declivio prossimo alla chiesa di Sant’Antonio a Posillipo. Sono in pochi a saperlo, ma poteva addirittura fregiarsi di una denominazione scientifica che è quella, poi, con la quale viene catalogata nei libri di botanica: “pinus pinea”. Che significa, press’a poco: “pino da pinoli”, pinoli commestibili (“‘e pigniuole” in dialetto). Chiamato anche pino domestico, o pino italico, questo bellissimo albero appartiene ad una specie coltivata fin dall’epoca dell’antica Roma e diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo, dalla Spagna all’Asia Minore. Quando è giovane, avvertono i manuali, è a forma di piramide, ma da adulto è a guisa di ombrello. Può raggiungere un’altezza di trenta metri e può vivere fino all’età di oltre centoventi anni. Quello di Napoli, quello che per lustri e lustri comparve, in primissimo piano, su milioni di cartoline illustrate, fino al punto di caratterizzare un’intera città, veniva definito, semplicisticamente, il “pino di Posillipo”. Sembrava che ombreggiasse tutto il golfo, dal Vesuvio fino a Sorrento e a Capri e che desse frescura a chi navigava, quel mitico e indimenticabile pino. Esso in realtà si elevò, fino al 1984, da un declivio prossimo alla chiesa di Sant’Antonio a Posillipo, praticamente accanto ad una curva dell’attuale via Orazio. Là, con le spalle alle sue radici e quindi al panorama, andavano a farsi fotografare gli sposi il giorno delle nozze; oggi, in mancanza del pino, vanno a farsi ritrarre dinanzi alle vetrine d’abbigliamento e di calzature in piazza dei Martiri. E meno male che di quel pino è, se non altro, possibile ricostruire la storia: ci provo io. Il punto di partenza non può essere che un attento esame di quella corrente pittorica legata al vedutismo che, in auge fra il 1820 il 1855, va sotto il nome di Scuola di Posillipo. E’ necessaria, a questo punto, una premessa. Fin dal Seicento non furono rari i pittori che, accanto ad opere ritenute allora più impegnative, eseguirono magari soltanto a scopo di lucro, dipinti aventi per oggetto scorci del golfo di Napoli: azzurre marine punteggiate di vele e di barchette. Fra questi pittori vi fu pure il grande Salvator Rosa, coadiuvato dal ragazzo di bottega Marzio Masturzio. “Andavano ambedue in barchetta disegnando belle vedute della deliziosa riviera di Posillipo”, scriveva nel 1744 lo storico dell’arte (ancorchè inaffidabile) Bernardo De Dominici. Nel Settecento, poi, si cimentarono nel vedutismo, lasciandoci notevoli opere sul golfo di Napoli, pittori inglesi, francesi, tedeschi e svedesi. Il mare di Posillipo, di Mergellina, della Gaiola, fu certamente reso celebre nel mondo dalla pittura prim’ancora che dalla canzone. Ma è appunto intorno allo scadere del secondo decennio dell’Ottocento che si assiste, a Napoli, al fiorire della Scuola di Posillipo. E il merito è da attribuire ad un olandese arrivato a Napoli nel 1816: Anton Smink van Pitloo. Anni dopo gli si affiancherà il napoletano Giacinto Gigante. Pitloo e Gigante possono essere considerati, pur autonomi l’uno dall’altro, i veri capostipiti della Scuola di Posillipo. E’ con essi che il vedutismo, precedentemente appannaggio di pittori commerciali, assurge a dignità d’arte. Fra i maggiori esponenti della Scuola di Posillipo, vanno ricordati Teodoro Duclère, Salvatore Fergola, Pasquale Mattei, Gabriele Smargiassi e Frans Veruloet. C’è da chiarire che all’inizio la denominazione di “Scuola di Posillipo”, coniata da pittori accademici dediti per lo più a raffigurazioni mitologiche voleva essere sminuente, anzi spregiativa. Ma quando fu chiaro che i nuovi paesaggisti erano i soli pittori che viaggiavano confrontandosi con gli artisti di tutta Europa e che dipingevano ciò che vedevano con i propri occhi, non ciò che faceva bella ma statica mostra di sé nei musei, quell’appellativo divenne sinonimo di un elogio. Perché, tuttavia, i pittori della Scuola di Posillipo ottenessero una piena rivalutazione, bisognerà che trascorra un secolo e che, cioè, si arrivi ai primi anni Trenta del Novecento. Le opere vedutistiche della Scuola di Posillipo costituiscono oggi (è qui che volevamo arrivare) anche un prezioso documento circa lo “stato dei luoghi” del Napoletano negli anni di metà Ottocento. Comprese le condizioni paesaggistiche di Posillipo. E’ da quei quadri, appunto, che si possono desumere fondate informazioni circa il pino di Posillipo, quello delle cartoline, quello che, per un gioco di prospettive, si stagliava netto e imponente sul mare di Napoli. La data di avvio, quella che ci permette di ricostruire la “biografia” del pino, sta in un disegno di Giacinto Gigante, uno dei due capiscuola, rimasto inedito fino a quando lo storico dell’architettura Roberto Pane, non lo pubblicò in un suo libro intitolato “Napoli imprevista”, uscito nel 1949 presso Einaudi. Ebbene, in quel disegno, che Gigante stesso chiamò “Panorama da Sant’Antonio a Posillipo”, il pino non c’è, assolutamente non c’è. Considerato dunque che i pittori della Scuola di Posillipo praticarono il paesaggismo fino a non oltre il 1855, anno dopo il quale ciascuno di essi sarà preso da altri interessi (Giacinto Gigante diventerà “internista”, cioè raffiguratore di luoghi chiusi) si arriva alla conclusione che quel pino che poi sarà reso celebre dalle cartoline, fu piantato, o almeno diventò adulto dopo il 1855. Questa data combacia perfettamente con il prosieguo della vicenda: sappiamo che, ammalatosi, il pino di Posillipo fu abbattuto nel 1984, e i centoventinove anni di differenza sono, grosso modo, pari alla possibilità di vita di un albero di quella specie. Promosso al rango di simbolo di Napoli dai fotografi cartolinistici negli a cavallo fra Ottocento e Novecento, quel ramificato pino fece anche da cornice a una costa: quella appunto che, scapolato il Vesuvio, inizia dal capo di Posillipo e che prosegue, in un susseguirsi di grotte, di spiagge solitarie (ove una volta erano i porticati, le piscine e le esedre delle residenze romane), di strapiombi rocciosi, di macchie con agavi e fichi d’India, di ville ottocentesche, e che è certamente una delle più rigogliose e affascinanti del Mediterraneo. Il promontorio di Trentaremi, gli scogli della Gaiola, lo specchio di Marechiaro concludono, al limitare di Mergellina, la costa di Posillipo. E’ ricchissima, questa costa, di riferimenti storici. Ecco, venendo da Mergellina, il palazzo Donn’Anna che sorge venezianamente dall’acqua: fu costruito da Cosimo Fanzago per le nozze di Anna Carafa col vicerè Ramiro de Guzman, avvenute nel 1637. Ecco la settecentesca villa progettata da Stefano Gasse per la duchessa di Gerace, diventata nel 1835 garçconniere del principe Luigi di Borbone, quindi acquistata da Lord Rosebery che nel 1932 la donò a Mussolini il quale a sua volta la regalò allo Stato ed è ora residenza estiva del Presidente della Repubblica. Ecco la dirupata casupola di Marechiaro la cui finestra ispirò nel 1886 a Salvatore Di Giacomo una canzone diventata celebre. Ed ecco la magica incantevole insenatura della Gaiola, parola che in dialetto significa “gabbia”. Perpendicolare, in prospettiva, allo storico pino, la Gaiola merita qualche riga in più. Anche per un motivo che, come presto vedremo, la collega strettamente e fatalmente proprio al pino di Posillipo. Secondo un’incontrollata leggenda i ruderi che qua e là contraddistinguono la Gaiola, sono ciò che rimane di una villa ove ebbe la sua sede una scuola di magia fondata dal poeta Virgilio. Sulla base di testimonianze di Plinio e di Cassio Dione, sembra però che fu proprio quella la villa che Vedio Pollione, un crudelissimo e ricchissimo cittadino romano, aveva donato all’imperatore Augusto. Secondo Svetonio, questo Pollione aveva commesso, nella villa della Gaiola, una serie di efferatezze, compresa quella di aver ordinato di dare in pasto alle murene vaganti in un vivaio un suo servo che, per sbadataggine, aveva fatto rompere dei bicchieri. Magia, fantasmi, crudeltà storiche vere o supposte. Ce n’era abbastanza per sbrigliare la fantasia dei napoletani. Molti di essi, passando da quelle parti, facevano degli scongiuri. La più recente storia della Gaiola si apre con le sregolatezze che, nell’Ottocento, commise Oscar Wilde in villa Paratore, sorta nella zona dell’antica residenza romana. Verso il 1910 l’intero complesso della Gaiola venne acquistato da una società svizzera che nel 1920 lo vendette a due tedeschi, Otto Gruenback e Hans Braum. Il primo morì suicida, il secondo fu ucciso a colpi di pistola. Nel dopoguerra, la Gaiola fu comprata dallo svizzero Maurice Sandoz: anche lui si suicidò. Successivamente, dopo essere stata proprietà del tedesco Paul Karl Langheim e poi di Gianni Agnelli, la Gaiola fu acquistata dal miliardario americano Paul Getty. Una parentesi felice e poi di nuovo guai. Nel 1978 comprò l’intero complesso il finanziere napoletano Giampaolo Grappone. Il quale, però, fu ben presto travolto dai debiti sicchè la villa, su istanza dei creditori, nel gennaio del 1984 fu messa all’asta. Nel giorno stesso in cui il finanziere perdeva la villa, sua moglie periva in un incidente stradale. Vinse la gara la Regione Campania. E da allora tutto andò bene, forse perché la Regione resiste a ogni cataclisma. Solo che il pino, il pino delle cartoline, il pino che stringeva il golfo in un abbraccio, il vecchio caro pino di Posillipo, in quello stesso 1984, si ammalò e bisognò abbatterlo. Vittima, forse, anche lui di un oscuro destino. Achille della Ragione
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